Non possiamo non essere digitali

A circa vent’anni dalla “bolla Internet”, quando incontravi un amico e ti diceva che faceva un portale, e dal successivo flop di tante iniziative, non possiamo dirci ancora digitali in Italia. La resistenza al cambiamento è stata maggiore del previsto e il Paese è scivolato rapidamente agli ultimi posti tra quelli sviluppati e in corsa nel processo di digitalizzazione. Ancora oggi nel rapporto con i principali servizi pubblici, sanità, scuola, amministrazione, fisco, la tecnologia è più un ostacolo che una facilitazione e i sistemi informativi sono quelli tradizionali gestionali, i processi non sono stati riprogettati in chiave digitale, l’accesso alle informazioni necessarie difficile, l’uso dei telefonini limitato. continuiamo ad essere bravini nello sviluppo di nuovi prodotti innovativi. ma la distribuzione commerciale, l’interconnessione tra imprese e tra queste e i cittadini sono ben al di sotto per fini economico-produttivi di quanto è stato già raggiunto per l’entertainment o il social-chiacchiericcio, quello sì alle stelle.

Da qui i bassi incrementi di produttività sopratutto dei servizi, ma anche delle imprese produttrici, che sempre più si confrontano con sistemi-Paese dove la digitalizzazione pervasiva ha consentito di semplificare i processi operativi, ridurre i costi, velocizzare lo scambio di informazioni e la trasversalità orizzontale che supera le gerarchie e i silos verticali di competenze. Paesi piccoli e ultimi arrivati nel turbocapitalismo, sono leader digitali nell’economia e nella società, basti pensare all’Estonia e in generale ai Baltici, ma anche alla nuova Polonia. Questa pervicace conservazione del passato in Italia mi ha sempre colpito ad ogni ondata tecnologica, come se avessimo dei pesi attaccati alle gambe non corriamo verso il futuro ma piagnucoliamo sul grande passato, con risultati ormai gravi nell’arretramento sociopolitico, oltreché economico. In tutto questo somigliamo sempre più ai russi , oblomovisti per natura e molto conservativi, adagiati in rapporti burocratici paralizzanti.

Troppo passato? Ignoranza diffusa?In primis la scuola ha perso ogni contatto con il ritmo del cambiamento e quindi trasmette processi e comportamenti dell’altro ieri a ragazzi sempre più annoiati e autodidatti sul web e sui social. Sembrerebbe facile recuperare, negli ultimi anni si susseguono piani pubblici per la digitalizzazione, ma l’unica legge efficace che almeno ha aiutato la trasformazione del manifatturiero è quella sugli investimenti in attrezzature meccatroniche, detta del 4.0, più o meno imitata dall’analoga tedesca. Senza dubbio gli investimenti in hardware sono importanti, ma quella che più latita nell’approccio alla digitalizzazione è proprio la risorsa umana, che abbandonata a se stessa si appassiona agli aspetti più deteriori dell’incalzante pettegolezzo del social network, o ai gadget, ai giochini, al gioco pesante, all’uso border line della comunicazione, alla demagogia dei politici che da Obama in poi hanno scoperto la comunicazione digitale, esaltata dai twitter di Trump.

Lo sforzo maggiore e fin qui assente in Italia deve essere quello per far capire a tutti le valenze economiche enormi della digitalizzazione come strumento di produttività nella produzione e nella commercializzazione dei prodotti e servizi, e non solo industriali, ma anche finanziari. Gli stessi specialisti informatici non colgono le opportunità della digitalizzazione anzi la temono come una minaccia al loro potere. Si tratta di una rivoluzione tecnologica che opererà almeno per i prossimi dieci anni, preparando un terreno favorevole anche per una accelerazione di tutti gli altri settori scientifico-tecnologici, in primis quelli dell’ingegneria genetica e dell’economia dello spazio. Non possiamo non essere digitali se vogliamo sopravvivere tra i primi della classe e non accontentarci di posti di terza o quarta fila, a quel punto con consumi allineati alla posizione in classifica.

Il forte dubbio è che mancando un’azione decisa sulle risorse umane, l’atteggiamento di pigrizia mentale prevalga, nell’affondamento piacevole nella digitalizzazione del solo “leisure”, addirittura, come sembra dalle ultime tendenze sociopolitiche, preferendo l’autarchia, l’isolamento dagli altri alla dura competizione a cui ci sentiamo profondamente inadeguati, un provincialismo riemergente nella società italiana, fin dai primi anni dopo l’unità, poggiante sul substrato del piacere di vivere mediterraneo. da tutto questo si insiste che il problema del recupero delle posizioni perdute nella corsa alla trasformazione digitale è prioritariamente umano e culturale, non solo di investimenti in strumenti e tecnologie, necessarie ma non sufficienti per smuovere una società così anchilosata e conservativa.Deve essere chiaro che non possiamo non essere digitali oggi e per il futuro.

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